Speranze - Reportage 
Sinceramente non avrei mai pensato che Paperinik.com avrebbe potuto permettersi un inviato internazionale. Però tra il 2002 e il 2003 un mio amico è andato in Israele: lo conosco da anni e quindi fa un certo effetto leggere le sue parole sapendo che scrive esattamente quello che ha visto con i suoi occhi. Insomma in questo periodo in cui non si sa più se fidarsi di giornali o televisione è come se fossi stato anch'io laggiù. 
Ma basta con le chiacchere, vi lascio al suo resoconto, ci è voluto un po' di tempo per averlo ma è (purtroppo) ancora attuale. 
(Paperinik). 
 
 
"Buongiorno, è qui in visita? Posso vedere i suoi documenti… e il biglietto di ritorno? Dove alloggerà?" Appena sceso dalla scaletta dell'aereo un uomo del servizio di sicurezza s'informa sulle mie intenzioni. All'aeroporto di Tel Aviv le domande sono ripetute da almeno tre persone differenti, i controlli dei bagagli minuziosi e frequenti le espulsioni degli indesiderati. Tra loro, tre mesi prima, quattro membri del gruppo pacifista al quale mi aggregherò (www.operazionecolomba.org). La tensione è evidente, appare nei modi e negli occhi degli agenti che ci sorvegliano, molti dei quali donne. Così le due ore d'interrogatori e controlli sono appena sufficienti per abituarsi all'idea di essere arrivati in un paese impaurito. All'uscita dell'aeroporto un soldato armato sorveglia mentre io cerco il taxi che mi porterà a Gerusalemme. La città è buia al mio arrivo ma non impiego molto a trovare l'ostello dove incontro gli altri del gruppo.  
Il mattino successivo mi lascio guidare da buon turista, è il 27 dicembre. Attraversiamo la Porta di Damasco per entrare nel quartiere arabo. Abiti dai colori brillanti, strilla di richiamo dalle bancarelle, donne la cui bellezza traspare nonostante il velo. I vicoli s'intersecano come un labirinto e si passa alla zona ebraica o alla cristiana in un attimo. Gli unici indizi di ciò sono gli abiti dei passanti: dai veli arabi alle tuniche dei religiosi cristiani o ai cappelli ebraici, tutto in un attimo. "Dove sono i problemi?".  
Passeggiando ascolto i racconti dei giorni appena trascorsi. Il Natale a Betlemme è stato emozionante. I soldati israeliani si erano ritirati in periferia e ai posti di blocco porgevano gli auguri ai turisti stranieri. Gli abitanti lasciavano le loro case per unirsi alla gente per strada. Due giorni di tregua e di festa finiti i quali tutto sarebbe tornato come prima: ancora spari, ancora coprifuoco. A Tel Aviv, il giorno del mio arrivo, centinaia di persone manifestavano per la pace. Tra loro alcuni obiettori di coscienza israeliani, si rifiutano di svolgere il servizio militare all'interno dei territori palestinesi occupati rischiando il carcere per questo. 
Decidiamo di cenare in un locale del centro, all'ingresso un ragazzo ci controlla le borse. Mi siedo lasciando lo zaino su una sedia del tavolo accanto, passano dieci minuti e il cameriere allarmato viene a chiederci se quella sacca sospetta è di qualcuno di noi. Non sarà facile farci l'abitudine.  
Il giorno seguente ci uniamo ad un gruppo di pacifisti italiani diretti a Ramallah per partecipare ad un incontro del World Social Forum. Alle porte della città si trova il check point di Qalandia Scendiamo dall'auto, passiamo a piedi il posto di blocco mostrando il passaporto ai militari e, dall'altra parte, prendiamo un nuovo taxi diretto in centro. La mattina ascoltiamo le relazioni di varie associazioni e partecipanti e nel pomeriggio sfiliamo per le strade della città. I palestinesi rispondono tiepidamente mentre i gruppi pacifisti israeliani sono del tutto assenti perché ai civili è proibito entrare nei territori occupati. Gli slogan sono forti, quasi insulti contro Bush e Sharon e mi chiedo che senso abbiano se urlati da stranieri che il giorno dopo si troveranno a casa loro, lasciando la gente del posto al proprio destino. Il gruppo al quale mi sono unito ha intenzioni diverse. "Cerchiamo di incontrare la gente, ascoltare le loro storie e condividerle. E' la cosa più semplice di questo mondo, ma è la più necessaria qui."  
Il 29 dicembre continuiamo il turismo di guerra e visitiamo la zona nord di Israele. Vicino al confine con la Palestina, più o meno quello tracciato e riconosciuto dall'ONU nel 1948 dopo la guerra, è in costruzione un muro divisorio. Molto se n'è discusso sulle TV italiane. Una fascia di almeno un chilometro di larghezza viene letteralmente rasa al suolo secondo uno schema ormai collaudato. Al centro sorgerà il vero e proprio muro mentre ai bordi una fascia di sicurezza con strade riservate ai mezzi militari. Ad intervalli regolari torrette d'avvistamento e check points presidiati per permettere il collegamento tra le due parti. A ridosso del confine visitiamo il kibbutz di Metzer, una comunità ebraica che da anni vive in pace con i villaggi palestinesi vicini. Veniamo accolti calorosamente e il sindaco ci spiega la loro posizione critica nei confronti del governo Sharon. Entrambe le parti ritengono la costruzione del muro utile, ma per motivi differenti. Gli israeliani vogliono impedire l'ingresso dei terroristi, i palestinesi sperano che ciò renda automatico il diritto all'indipendenza delle loro terre dall'altra parte del muro. Le dichiarazioni del governo però li smentiscono, affermando che mai il muro dovrà essere considerato come un confine tra due stati e che Israele continua a rivendicare il diritto sui territori palestinesi occupati nel 1967. I membri del kibbutz quindi non si oppongono alla sua costruzione, ma chiedono che esso sorga esattamente sul confine e si dicono pronti a cedere parte delle loro terre per realizzarlo. Secondo il tracciato attuale il muro è sistematicamente costruito all'interno della Cisgiordania espropriando terreni solo da quel lato e annettendo una fascia di alcuni chilometri di larghezza. Tutto ciò crea risentimento nella popolazione palestinese e ne riduce i terreni agricoli ora che l'agricoltura è la loro unica fonte di sostentamento. La posizione di questa comunità è sincera e coraggiosa, ma lo diventa ancor di più se si pensa che è rimasta invariata nonostante un grave attentato che provocò la morte di cinque persone, tra cui due bambini, lo scorso novembre. "L'unico modo per non dargliela vinta è andare avanti per la nostra strada". Purtroppo questi sentimenti e questo coraggio sono rari da entrambe le parti. 
Il 30 dicembre si parte per la Striscia di Gaza, finalmente potrò vedere con i miei occhi ciò di cui ho tanto sentito parlare.  
Lunga 43 km e larga 10 è la fascia costiera vicino al confine con l'Egitto, venne occupata da Israele nel '67 ed è completamente isolata dagli altri territori palestinesi. Attualmente è l'unica zona ad avere una limitata sovranità, dopo la rioccupazione dell'intera Cisgiordania due anni fa con l'inizio dell'Intifada. I soldati israeliani si limitano a presidiare alcuni punti strategici, come i confini e i posti di blocco, restando asserragliati nelle loro postazioni. Uscire è impossibile senza un permesso speciale o un passaporto straniero. Circa 5,000 israeliani hanno colonizzato circa il 40% del territorio, principalmente lungo la costa dove i terreni sono più fertili. Diverse risoluzioni ONU hanno giudicato illegale questo esproprio, come del resto quelli avvenuti in Cisgiordania, ma rimangono tuttora inascoltate. La Striscia conta 1,200,000 abitanti palestinesi, la maggior parte sono profughi del 1948, originari delle terre su cui fu fondato lo stato di Israele. Le famiglie sono unite e numerose, in media quattro o cinque figli per coppia, quindi circa la metà della popolazione ha meno di 18 anni.       
All'ingresso di Qararah si trova il check point di Abu Holi riconoscibile di giorno per la coda di auto in attesa. Non si può prevedere quanto tempo ci vorrà, dieci minuti, un'ora, un giorno, a discrezione dei militari israeliani di controllo. Il nostro turno arriva dopo mezz'ora, sentiamo una voce metallica dal megafono, il nostro autista si ferma, aspetta il segnale e riparte. Il contatto umano è nullo, a differenza di ciò che accade nella West Bank, dei soldati si vede solo la canna del fucile sbucare dalle torrette blindate. Le regole da seguire sono semplici: avere almeno 3 passeggeri, non scendere dall'auto ne uscire dai percorsi segnati. Le possibili reazioni anche: insulti, spari in aria, in terra, uccisioni.  
Un gruppo di bambini ci accoglie festosi ma in modo aggressivo. Il gioco più diffuso qui non è guardia e ladri ma palestinesi e israeliani; sono abituati a vivere per strada, sentono la tensione e la manifestano nei loro giochi e nei loro sogni. La figlia di H una notte si sveglia piangendo per un incubo: un gruppo di soldati la stava rincorrendo e lei cercava di scappare per strada. Per rincuorarla il padre la prende in braccio e le dice: "Potevi venire verso casa, da me", e lei "Ma così avrebbero ucciso anche te"      
L'appartamento in cui vivremo è lungo la strada, meno di due chilometri dopo il posto di blocco. Di fronte a noi ad un chilometro il confine dell'insediamento israeliano che blocca l'accesso al mare, verso nord a due chilometri la strada dei coloni. Venne costruita negli anni 70 per congiungere la colonia con Israele scavalcando i territori occupati ed ora è presidiata lungo tutto il suo perimetro. Un cavalcavia le impedisce di incrociare la strada principale palestinese e sotto di questo si trova il check point di Abu Holi. Poco dopo il tramonto cominciamo a sentire i primi spari, difficile capirne la provenienza. I soldati sparano in aria per spaventare, ma in passato alcuni di quei proiettili sono entrati nella casa di un nostro vicino, per fortuna senza provocare feriti. "Un paio di giorni e ci farai l'abitudine" mi dicono. Vicino alle zone presidiate con il tramonto cala anche il coprifuoco. Le famiglie si chiudono in casa, meglio se al piano terra, e aspettano il mattino. Nei giorni successivi visitiamo alcune di quelle case. "Il periodo peggiore è quando arriva un gruppo di nuovi soldati, sparano tutta la notte. Dopo qualche giorno però si calmano" ci dice un ragazzo che vive la. Alcune di queste persone lavorano nell'insediamento per poco più di 10 euro al giorno; "Oltre che imprigionati anche sfruttati" mi viene da pensare. 
Il mattino del 2 gennaio andiamo in visita ad una casa a ridosso della strada dei coloni, nella notte c'è stata un'incursione dei soldati israeliani. Due famiglie, un mare di bambini, i soldati sono arrivati, li hanno chiusi nelle stanze ed hanno sigillato le finestre del secondo piano per "motivi di sicurezza". "Se le apriamo butteranno giù la casa. Da qui però non ce ne andiamo, questa è casa nostra!". Meno fortunate quelle famiglie le cui abitazioni o i cui campi sono stati distrutti per creare fasce di sicurezza vicino ai presidi militari. Una media di due edifici per notte, la maggior parte nella zona di Rafah, sul confine con l'Egitto. Viene concessa mezz'ora per sgombrare l'edificio, poi vengono piazzate alcune cariche di esplosivo. Visitiamo una di queste famiglie, una madre anziana e i suoi due figli, ora vivono in una tenda. 
L'attentato di Tel Aviv del 6 gennaio arriva come un macigno, non abbiamo bisogno di traduzioni guardando i TG in arabo per capire la gravità della situazione.  Qualcuno ci guarda e scuote la testa, molti sanno che questo peggiora la situazione e che la reazione israeliana non si farà attendere. Altri la pensano diversamente: "Se la sono cercata!", "Almeno ora ai TG stranieri si parlerà di noi"."Ho pena per le vittime dell'attentato, ma negli ultimi due anni, solo nella nostra zona, sono morte duecento persone di cui quaranta bambini; chi ha avuto pietà per loro?" 
Decidiamo di trascorrere la notte nel campo profughi di Kan Younis. Nato per ospitare gli sfollati della guerra del 1948 oggi è ormai una città. L'insediamento israeliano si trova lungo la costa a ridosso del campo, li divide un alto muro fortificato e le case, nelle sue immediate vicinanze, sono completamente crivellate di colpi. Alcuni villaggi palestinesi vicino al mare ne sono completamente inglobati, l'unico accesso è il check point di Al Mawasi al fondo della strada principale del campo dove, a tutte le ore del giorno, una piccola folla attende di poter fare ritorno a casa. Qualcuno è costretto ad aspettare anche più di un giorno, restano seduti in terra finché dal megafono arriva il segnale per il primo gruppetto, pochi ormai protestano e in modo rassegnato. 
L'uomo che ci ospiterà per la notte vive a ridosso del confine con i suoi dieci figli. Ci accompagna sul terrazzo per mostrarci la situazione quando, dalla torretta di guardia poco distante, partono due bombe sonore dirette a terra a 150 metri da noi. Manca poco al tramonto e al coprifuoco quindi non era il momento migliore per farlo. A volte i militari aprono il fuoco in risposta agli spari di qualche provocatore che si nasconde tra le case, a volte per iniziativa personale ed i fori dei proiettili entrati dalle finestre lo testimoniano. Nell'edificio accanto il mese precedente un ragazzo di sedici anni è morto nel sonno in questo modo. Il mattino successivo porgeremo le condoglianze alla famiglia. 
Trascorriamo la notte serenamente, cullati dai soliti spari e dal cigolio di un blindato che pattuglia la fascia di sicurezza. Il mattino successivo andiamo in visita ad un gruppo pacifista internazionale a Rafah, vicino al confine con l'Egitto. Questa è la zona più difficile, l'esercito israeliano, con carri armati e bulldozer blindati, sta costruendo un altro muro sul confine tra Egitto e Striscia di Gaza e per farlo un intero quartiere della città è progressivamente abbattuto. "Se costruiscono un muro significa che non se ne vogliono andare, perché costruire qualcosa se non hai intenzione di utilizzarla?". Qualche palestinese a volte spara inutilmente contro i blindati che rispondono con maggior successo, quindi l'unica opposizione efficace qui sono le tende dei pacifisti. Durante il giorno sono smontate e piazzate tra i carri armati e le case che si prevede abbatteranno nella notte, cercando di bloccarne il passaggio. "Ci vuole molto coraggio… forse troppo per me".      
Si avvicina il giorno della partenza e mi giunge tra le mani il Jerusalem Post del 9 gennaio. "L'unico modo per porre fine agli attentati è far capire ai palestinesi che sono controproducenti. La comunità internazionale deve dare mano libera all'esercito israeliano che risponderà adeguatamente". In un altro articolo leggo di uno scontro a fuoco cruento tra militari e terroristi nel campo di Al Mawasi, la notizia non trova conferma tra i palestinesi. A chi credere?  
La sera dell'undici ci fermiamo nuovamente a Khan Younis per la notte, ospiti del responsabile di un centro per l'assistenza a non vedenti con cui il nostro gruppo in passato ha collaborato. "Perché Arafat ha rifiutato l'accordo Barak di tre ani fa?". "Ci concedeva meno della metà delle nostre terre, suddivise in quattro zone separate. Noi vogliamo un nostro stato indipendente, quello che ci hanno proposto erano delle riserve indiane".  Ceniamo così con tre amici alternando battute e discussioni ed alle 22,30 accompagniamo due di loro a casa. Per le strade del centro la gente passeggia e alcuni locali sono ancora aperti, non più di due chilometri ci separano dalla zona del coprifuoco ma sembra di essere in un altro mondo, sembra di essere nella normalità. Almeno per ora. Poco dopo essere rientrati sentiamo un elicottero, "Brutto segno!". Passano pochi minuti e comincia il suono dei cingoli, sempre più vicini, poi gli spari. Spegniamo le luci, ci sediamo in terra ed aspettiamo, non si può fare altro. Si sta concretizzando quello che avevo letto il giorno precedente. Un carro armato fa la ronda lungo la strada principale, a duecento metri da noi, mentre un megafono intima alla popolazione di rientrare in casa senza reagire. Sicuramente tra gli spari ci sono quelli della resistenza palestinese, i soliti fucili contro i blindati. All'una e trenta vediamo un forte bagliore, poi sentiamo un boato e la nostra casa trema per un attimo. Un'ora dopo i rumori dei cingoli e degli spari si allontanano accompagnati dalle grida di festa e di sfida della gente. Il mattino testimoni parlano di 80 blindati, otto edifici distrutti, due morti e una dozzina di feriti. Girando per la città visitiamo le zone degli scontri. Alcune officine meccaniche sono state minate e fatte saltare, carrozzerie e laboratori artigiani secondo i palestinesi, fabbriche d'armi secondo gli israeliani. Probabilmente se fossero servite tutte per produrre armi si sarebbe vista una resistenza maggiore. Molto probabilmente non servivano a questo scopo il negozio d'abbigliamento e i quattro appartamenti dei piani superiori che abbiamo visitato. Sicuramente ne era estraneo il centro per non vedenti danneggiato dalle schegge di un'esplosione avvenuta dall'altro lato della strada.  
Incrociamo il corteo di un funerale, un gruppetto di uomini bendati e armati, alcune bandiere. Visti dall'esterno alla TV m'incutevano timore e risentimento, ora, immersi nel loro contesto, hanno un qualcosa di folcloristico. 
Nel pomeriggio ci giunge notizia di un'altra azione militare poco lontano. Un missile sparato da un elicottero, indirizzato contro l'auto di un terrorista, ha sbagliato mira uccidendo due giovani. La notizia sarà riportata sui giornali israeliani e stranieri senza clamore o commenti.  
E' ormai tempo di tornare in Italia e come ogni volta che si fanno nuove amicizie salutarsi è triste.  
Il 13 gennaio prendiamo un taxi diretto a Gerusalemme per poi giungere a Tel Aviv. Incrociamo molti più militari rispetto all'andata, effetto dell'attentato e delle azioni israeliane di risposta, ma non abbiamo problemi. I controlli all'aeroporto sono molto più severi rispetto all'arrivo. Subito mi vengono poste le solite domande sul motivo del mio viaggio e sui luoghi visitati, ma quando notano il timbro della Striscia di Gaza sul visto di ingresso la tensione improvvisamente sale. Mi perquisiscono, sui miei bagagli sono attaccate delle targhette rosse di riconoscimento e, da quel momento, un responsabile della sicurezza mi resterà accanto sino all'arrivo al cancello d'imbarco. Sento una strana tensione mentre mi viene ripetuta per l'ennesima volta la domanda sul perché del mio viaggio, ma non ho nulla da nascondere quindi mi sforzo di restare calmo. Dopo circa due ore saluto il mio angelo custode stringendogli la mano. E' un ragazzo giovane, zoppica leggermente e forse questo gli ha evitato il servizio militare. "Spero che le cose andranno meglio", "Lo speriamo tutti qui". 
Il viaggio è tranquillo e dopo un'oretta scambio qualche parola con il mio vicino di posto, un uomo di mezza età in viaggio per lavoro. "Siamo stati noi ad essere stati aggrediti nel '48 e nel '67. Possiamo anche cedere ai palestinesi una parte delle terre che abbiamo conquistato, ma ci abbiamo già provato tre anni fa. Arafat non accettò ed ora istigano i loro figli alla violenza. Loro hanno voluto tutto questo. Non possiamo cominciare a scappare ora altrimenti dovremo farlo per sempre". 
Annuisco e non rispondo.  
Vorrei potergli parlare dei soprusi, indegni di uno stato democratico. Vorrei rispondere che molti palestinesi credono nel dialogo e rifiutano il terrorismo e che forse tre anni fa non era stato offerto poi molto. Vorrei dire che molti atti di violenza vengono dalla frustrazione e dal dolore, che questo non li giustifica, ma che io stesso in quella situazione non so come reagirei. Vorrei aggiungere che alcuni di quelli che loro chiamano terroristi in Italia sarebbero stati definiti partigiani.  
Vorrei raccontare di quei bambini con cui ho giocato e dei pranzi fatti senza posate seduti in terra sui cuscini. Di quei ragazzi che mi chiedevano com'è fatto il mondo, dall'altra parte del muro o del mare e dei loro sogni per il futuro.  
Vorrei infine chiedergli dei pacifisti israeliani che ho conosciuto e ammirato, se sono tutti in errore. Vorrei, ma mi trattengo per prudenza e forse per vigliaccheria.   
Così ho deciso di provarci ora, inoltre dovevo scrivere perché mi è stato chiesto. "Mi raccomando raccontate quando tornate a casa" dicevano in molti, altrimenti forse non lo avrei fatto.  
Nel frattempo ho saputo di un'autobomba al check point di Abu Holi, di un israeliano morto mentre sorvegliava il confine dell'insediamento e di una pacifista americana investita da un bulldozer a Rafah. Forse per strada ho incrociato uno di quegli attentatori, forse ho sentito alcuni spari di quel soldato impaurito nella sua torretta ed ho conosciuto gli amici di quella ragazza. Sono confuso, però non mi riesce di immaginare molte diversità tra loro.  
 
Ivano. 
 
 
 
 
Cantiere del muro 
 
 
Check point di Abu Holi 
 
 
Confine Khan Younis-insediamento israeliano 
 
 
 
 
Kan Younis dopo incursione (1 e 2) 
 
 
Check point Al Mawasi 
 
 
Abitanti di Al Qararah 
 
 
Manifestazione World Social Forum a Ramallah 
 
 
 
 
 
 
 
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